Cosa vuol dire scrivere di vino

di Daniele Cernilli

Scrivere è una professione. Non tutti la sanno fare, anche se tutti noi siamo andati a scuola e abbiamo imparato a leggere e a scrivere. Ma è come dire che prendere la patente significa poi saper guidare bene. Non è evidentemente così.

Poi saper scrivere bene non è solo un fatto grammaticale. Vuol dire riuscire a comunicare, a informare, qualche volta anche a insegnare. Abilità non comuni e soprattutto non facili da imparare. Nel mondo del vino la cosa è ancora più complessa, perché quelle abilità devono comprendere capacità di divulgazione, di conoscenza anche minima dei processi enologici, di elementi di viticoltura, di geologia, persino di storia, di letteratura e di geografia. Perciò chi scrive di vino magari non sarà un enologo e neanche un agronomo o un professore di materie letterarie, ma deve almeno capire quello che tutti coloro che invece lo sono, dicono, fanno e scrivono. In più deve capire cosa i vini esprimono dal punto di vista organolettico, e provare a scriverlo senza alcuna retorica autoreferenziale. Nel senso che a un pubblico mediamente ignaro di questioni tecniche, e che a stento riesce a distinguere un vino da un altro, non interessa quasi nulla quello che un degustatore o sedicente tale prova assaggiando un particolare vino.

Ci sono continui fraintendimenti e molta confusione. Pensate solo che il termine “fruttato”, che secondo qualunque scuola sommelieristica è attribuito a profumi primari e fermentativi, per la maggioranza dei consumatori è invece un sapore dolce e tutt’al più aromatico, perché relativo alla frutta, che è, appunto, dolce. Allora provo a dire che una delle cose fondamentali per comunicare tutto ciò che è relativo al mondo del vino, proprio come diceva don Lorenzo Milani, è quello di spiegare qualunque termine si usi in un discorso.

È quasi un dovere morale, un rispetto nei confronti di chi perde tempo ad ascoltarci, dedicando a questo una parte, anche minimale, della sua esistenza. Perché, se qualcuno ci ascolta, qualcosa che gli servirà per capire ci deve pur essere, e la dimostrazione di quanto siamo bravi a descrivere un vino è in funzione di quello, e non del narcisismo di un degustatore.

Poi bisogna essere precisi. I profumi di un vino non possono essere il delirio di un assaggiatore, ma devono definire ciò che nel vino c’è effettivamente. Possiamo non chiamarli terpeni ma aromi floreali, non tioli ma profumi di frutta esotica e di pietra focaia, non lattoni ma sentori di mandorla fresca, e così via. Ma quando abbiamo definito con un riconoscimento olfattivo una famiglia di elementi presenti in quel determinato vino, questo è più che sufficiente.

Con i sapori è più semplice, perché che i tannini inibiscano la salivazione e gli acidi organici la stimolino è evidente, ed è questo che va spiegato e fatto capire in concreto, assaggiando, appunto. Ma non è finita qui, ovviamente. C’è tutto ciò che di retorico e insopportabile ha a che vedere con il cosiddetto “story telling” che può scadere in retorica con grande velocità. Perché per scrivere di vino bisogna sapere scrivere.

Altra cosa che si dà troppo facilmente per scontata. E per scrivere bene si deve avere fantasia, certo, tecnica, di sicuro, ma anche la voglia di raccontare qualcosa, e non semplicemente di dimostrare in modo quasi infantile quanto siamo più bravi e competenti di chi ci legge. Ma, anzi, porsi il problema di farci capire da chiunque abbia la pazienza di leggerci o di ascoltarci, sperando di ottenere informazioni e conoscenze. Divulgando nel modo più efficace possibile.

Chiudo chiedendomi come mai persone come il compianto Piero Angela e suo figlio Alberto, o Mario Tozzi, o David Attemborough hanno fatto capire argomenti complessi di scienza e di storia, e noi del mondo del vino, tranne alcune rare quanto valide eccezioni (penso al Respiro del Vino del professor Moio) non ci riusciamo? È anche un’autocritica, evidentemente, però pensiamoci tutti un po’ di più.