Dalla Sardegna alla Sicilia, così il vino diventa identitario, ma produciamolo di meno

di Riccardo Cotarella

E’ stato bellissimo, emozionante e soprattutto importante per affermare, una volta di più, l’identità del vino rispetto ai territori, alle culture e alle tradizioni dei luoghi in cui viene prodotto. Sto parlando del congresso nazionale di Assoenologi che si è svolto a Cagliari e sto scrivendo questo editoriale a poche ore dalla conclusione dei lavori. Ogni anno, rischiando di essere ripetitivi, diciamo che il congresso appena concluso sia stato tra i migliori di sempre, ma probabilmente è vero. È davvero così. È vero nel senso che, anno dopo anno, Assoenologi diventa sempre più punto di riferimento per tutto ciò che, a 360 gradi, riguarda il momdo del vino italiano. La due giorni in Sardegna ci ha permesso di affrontare temi di grande attualità, a cominciare dall’andamento dei mercati, che non stanno certo offrendo il meglio delle performance conosciute. I relatori che hanno impreziosito i lavori della nostra Associazione, ci hanno offerto uno spaccato internazionale che ci impone delle profonde riflessioni sulla conduzione delle nostre cantine, soprattutto in termini produttivi.

Inutile girarci troppo intorno. Come ho avuto modo di sottolineare nei miei interventi al congresso, credo che siamo giunti a un punto di svolta da cui non possiamo più sottrarci: dobbiamo andare verso una significativa riduzione della produzione globale del vino italiano. C’è una evidente sovrapproduzione rispetto alla richiesta dei mercati e dobbiamo avere il coraggio di dircelo senza filtri. Se non lo facessimo, la conseguenza sarebbe, inevitabilmente, quella di andare incontro a una gestione malsana delle imprese. Per troppi anni l’Italia si è pregiata di essere la nazione principe in termini di quantità produttiva di vino, senza accorgersi che si stava vantando di qualcosa che le stava nuocendo. E soprattutto nuoce al valore vero dei nostri vini. La sfida immediata che ci attende è proprio questa, diminuire la produzione e aumentarne il valore. Ovviamente non è qualcosa che può essere imposto dall’alto, occorre un nuovo paradigma culturale. Purtroppo ci sono ancora troppe realtà che conducono le proprie aziende come sessant’anni fa, sfornando milioni di bottiglie per poi farle finire sui mercati a prezzi equiparati a quelli dell’acqua minerale. Il mondo è profondamente cambiato da quell’epoca, i consumi pro capite sono drasticamente calati. Il congresso di Cagliari ha indicato una rotta ben precisa, con indicazioni inequivocabili che arrivano dagli Stati Uniti, come dalla Cina o dal Vecchio Continente.
Il nuovo approccio culturale e imprenditoriale passerà inevitabilmente, come è accaduto in altre scelte significative, per l’opera e la managerialità degli enologi, veri custodi del sapere vitivinicolo e non solo in termini tecnici. La sfida che ci attende è enorme, ma credo che il percorso di studio e professionalità che da anni è stato intrapreso, ci consenta di affrontarla con competenza e preparazione. E quindi, iniziamo a suggerire alle cantine in cui lavoriamo che non serve produrre milioni di ettolitri per imporsi sui mercati, ma servono grandi vini che siano davvero concorrenziali con tanti altri grandi vini che ormai vengono prodotto a ogni latitudine del pianeta.
Per concludere vorrei tornare al congresso in Sardegna per dire ancora una volta grazie alla Sezione Assoenologi della regione, guidata da Mariano Murru: l’esperienza vissuta è stata tanto intensa. Poche altre volte si è respirata un’aria così identitaria attorno al prodotto vino. Un’esperienza che sono certo replicheremo il prossimo anno, quando il congresso Assoenologi si celebrerà in Sicilia, nella bellissima Agrigento, capitale della cultura italiana 2025.