Il possibile contributo evolutivo dell’alcol

di Michele Scognamiglio

 

E’ opinione diffusa che l’atavico slancio dell’uomo nei confronti delle bevande alcoliche, sia da ricondurre esclusivamente a motivazioni di carattere edonistico e voluttuario. Pur riconoscendo alle motivazioni su esposte un ruolo tutt’altro che trascurabile, a giustificare almeno in parte l’inossidabile e per certo antichissima liaison uomo-alcol potrebbe aver contribuito in un passato assai lontano, un suo consistente impulso evolutivo, spesso del tutto trascurato.
Ai nostri giorni, ahimè, l’attenzione di una parte (per fortuna limitata) della comunità scientifica si concentra esclusivamente sulla potenziale nocività dell’alcol etilico, rispetto alla quale nulla questio, siamo tutti d’accordo.
Ritengo tuttavia doveroso non equiparare frettolosamente tutte le bevande in cui esso è contenuto, trascurare le modalità della loro produzione e soprattutto il contesto alimentare o più in generale lo stile di vita, all’interno del quale esse vengono consumate.

Alcol: piacere o necessità?

In realtà, per quanto oggi si faccia fatica a riconoscerlo, in aggiunta al variegato e composito corredo di simboli, riti e tradizioni che da sempre hanno accompagnato le diverse bevande alcoliche, vino su tutte, esse hanno esercitato per l’uomo, e forse non solo, un importante ruolo nutrizionale che in alcuni casi, potrebbe aver contribuito alla loro stessa sopravvivenza.
Senza arretrare troppo le lancette della storia, ricordo che fino a tutto l’800, all’acqua, che ristagnava durante le lunghe traversate contaminandosi di pericolosi microrganismi, i marinai, preferivano vino, brandy, rum o grog, una miscela di acqua e rum, e guai a darglieli annacquati.
Nello stesso periodo, anche Pasteur, l’insigne microbiologo francese che con le sue intuizioni nel mondo dell’infinitamente piccolo ha contribuito notevolmente anche alla conservazione degli alimenti, ammoniva circa la maggiore salubrità del vino e della birra rispetto all’acqua, veicolo di pericolosi patogeni in quanto non ancora sottoposta ad efficaci trattamenti di potabilizzazione.

Breve viaggio nel passato

Ma, per comprendere il possibile e sostanziale contributo evolutivo dell’alcol, è necessario intraprendere un lungo viaggio a ritroso nella nostra storia evolutiva in grado di riportarci a milioni di anni fa.
Senza alcol e soprattutto senza l’acquisizione della capacità di bioneutralizzarlo è assai probabile che saremmo ancora costretti ad una vita arboricola come i nostri progenitori con la coda. In altre parole, è verosimile che per diventare Sapiens, Homo, prima sia stato necessariamente Bibens.
Cercherò di essere il più chiaro possibile, e mi scuso in anticipo per la semplificazione, nel caso, in taluni passaggi risulti eccessiva.
Non disponiamo di prove che ci permettano di datare con accettabile approssimazione la comparsa delle prime bevande contenenti alcol nel vivere umano.
Probabilmente più di 20.000 anni fa, l’uomo Paleolitico, quando vestiva i panni di cacciatore/raccoglitore e ancor prima di indossare quelli di agricoltore/allevatore in maniera fortuita ed episodica avrebbe potuto fare la conoscenza dell’alcol presente per fermentazione naturale nel miele, nei datteri o nella linfa vegetale ricca in zuccheri.
La scoperta di quell’ingrediente misterioso, capace di inebriare, di rallegrare e di lenire seppur temporaneamente le difficoltà del vivere quotidiano, non passò affatto inosservata. La prova è rappresentata dal fatto che le diverse bevande alcoliche, comparse in tempi e luoghi diversi, sono divenute rapidamente protagoniste indiscusse della vita sociale, religiosa e culturale delle civiltà umane.
Addirittura sono parecchi coloro che ipotizzano che la diffusione e il perfezionamento dell’agricoltura, e in particolare della cerealicoltura, avrebbe avuto inizialmente come obiettivo più la produzione di materie prime da avviare alla fermentazione alcolica che di granaglie da destinare alla panificazione o al foraggio degli animali da allevamento.
All’incirca 10.000 anni fa, possiamo collocare i primi agricoltori e quindi anche i primi produttori intenzionali di bevande alcoliche della storia nella cosidetta Mezzaluna Fertile, il territorio a forma di falce che si estende dal Mar Rosso al Golfo Persico e che ha dato i natali a buona parte dei vegetali che oggi apprezziamo e consumiamo.
E così, mentre nelle terre ubertose bagnate dal Tigri e dall’Eufrate e in quelle Mediterranee si andava progressivamente diffondendo e perfezionando la produzione di vino d’orzo e vino, pulque e chicha facevano la loro comparsa in America, il sake nel Paese del Sol Levante e tante altre ancora a diverse latitudini e longitudini ottenute sempre a partire da vegetali contenenti zuccheri fermentescibili.

I vantaggi per la scimmia …ebbra

ebbene ampiamente dibattuto, un quesito non ancora del tutto chiarito è quello relativo alla datazione della capacità dell’uomo di metabolizzare l’alcol.
Due le ipotesi.
La prima, l’uomo sarebbe divenuto capace di biotrasformare l’alcol in tempi relativemente recenti, solo dopo aver cominciato a produrre intenzionalmente bevande alcoliche, all’incirca 10.000 anni fa.
La seconda, tale capacità era già presente nell’uomo in quanto trasmessa dai suoi lontani progenitori, che milioni di anni prima, erano già equipaggiati del necessario corredo enzimatico per affrontare adeguatamente l’alcol, minimizzandone quantomeno la nocività.
Diverse acquisizioni sembrano confermare in maniera evidente la seconda ipotesi.
Probabilmente, la conferma più robusta all’affascinante ipotesi della primigenia capacità di metabolizzare l’alcol ci è fornita da Matthew Carrigan, un paleogenetista della Florida e a cui rimando i più volenterosi per una descrizione più esaustiva.
In sintesi e sperando nella clemenza di Matthew, il suo studio ha confrontato l’attività di un particolare isoenzima (una forma molecolare diversa) dell’ADH (Alcol Deidrogenasi) enzima chiave nella degradazione dell’alcol etlico ricavato da diversi animali, parenti prossimi e remoti dell’uomo.
Le conclusioni suggeriscono che la capacità di “digerire” l’alcol, neutralizzandone o quantomeno riducendone i potenziali effetti negativi e favorendo nello stesso tempo l’acquisizione della tolleranza per limitati quantitativi, sembra essere comparsa diversi milioni di anni fa.
Matthew si spinge oltre, arriva ad ipotizzare che la mutazione alla base di tale acquisizione, sarebbe apparsa solo in alcune specie, circa 10 milioni di anni fa, quando il clima divenne meno glaciale consentendo loro di vivere a contatto con il suolo.
In altre parole, ancor prima che la specie umana facesse la sua comparsa, a quanto pare il suo destino con l’alcol era in qualche modo già segnato.
Gli antenati comuni di scimpanzè e degli esseri umani, dotati per una bizzarria dei geni degli enzimi necessari a metabolizzare efficacemente l’alcol avrebbero avuto considerevoli vantaggi rispetto agli animali non attrezzati di un tale sistema di biotrasformazione.

 

Metabolizzazione alcol, efficace strategia di sopravvivenza

La capacità di tollerare l’alcol, fornì loro nuove ed inattese fonti alimentari, ne favorì la sopravvivenza e condizionò probabilmente anche la successiva evoluzione verso la specie umana.
I pochi e fortunati animali antropomorfi dell’epoca potevano cibarsi “a sbafo” di frutta sovrammatura che una volta caduta a terra aveva cominciato a fermentare per azione di microrganismi presenti nel suolo trasformando parte degli zuccheri in alcol.
Ricordo che l’etanolo ha un elevato potere energetico, l’ossidazione di 1 grammo fornisce 7 Kcal a differenza delle 4 che si ricavano da un grammo di zuccheri e di proteine, solo i grassi riescono a far meglio fornendo più di 9 Kcal.
Tuttavia a differenza dei macronutrienti grassi, proteine e zuccheri che se assunti in eccesso possono essere accumulati in maniera maggiore o minore nei diversi organi e tessuti, l’etanolo non viene accumulato ma solo catabolizzato o eliminato nel più breve tempo possibile, per questo motivo lo si considera più correttamente un pseudonutriente.
Solo i nostri lontani antenati in possesso del nuovo gene, capace di codificare una versione efficiente di Adh avrebbero potuto disporre di una fonte abbondante di cibo e dall’alto valore energetico e soprattutto non avrebbero dovuto nè contenderla nè condividerla con altri.
Tutti gli altri, positivi al test del palloncino, avrebbero accumulato velocemente ed inesorabilmente, grandi quantità di etanolo nel sangue e si sarebbero ben presto ubriacati/intossicati divenendo facile bottino per tutta una serie di predatori.
Considerando gli innegabili vantaggi derivanti dal possesso di un tale enzima,  e ricordando sempre che Natura non facit saltus, il relativo gene è stato selezionato nella linea evolutiva di scimpanzè e umani.

Altro aspetto strettamente legato a tale acquisizione, potrebbe essere stato il progressivo passaggio da una vita arboricola ad una sempre piu terricola.
Ad un certo punto quindi, grazie alla capacità di metabolizzare l’alcol ..tutti giù per terra!
Non meno interessante è l’osservazione che l’ADH4 (questo il nome dell’isoforma valutata da Carrigan) oltre al metabolismo dell’alcol sembra essere coinvolto anche nella degradazione di altre sostanze chimiche.
In particolare, l’enzima sarebbe in grado di neutralizzare alcuni alcaloidi, sostanze prodotte dai vegetali fondamentalmente per dissuadere animali erbivori o frugivori.
Tuttavia, man mano, che l’efficienza di ADH4 nel degradare l’alcol si andava perfezionando in alcune specie animali, di pari passo diminuiva la capacità di neutralizzare molte di queste sostanze.
Quanto su esposto dimostra ancora una volta come la Natura risoluta e pragmatica, ragiona ed agisce sempre per priorità.
Verosimilmente gli alimenti contenenti alcol, in virtù del maggiore apporto energetico, in quel dato momento e per determinate specie animali, avevano la priorità rispetto alla pericolosità degli alcaloidi vegetali.
A dar manforte alle conclusioni di Matthew Carrigan anche Robert Dudley, Professore di Biologia Integrativa all’Università della California che nel 2014 ha proposto per la prima volta la Drunken Monkey Hypothesis, ovvero l’Ipotesi della Scimmia Ubriaca.
Anche tale ipotesi sostiene che lo slancio umano verso le bevande alcoliche ha radici profonde ed antichissime essenzialmente legate ai vantaggi che derivano dal consumo di vegetali contenenti zucchero fermentato, dovuti non solo all’elevato contenuto calorico dell’etanolo ma probabilmente ad un protettivo effetto antimicrobico.
Gli antenati dell’uomo potrebbero aver selezionato per il consumo preferenzialmente frutta carica di zuccheri e alcol segnalata anche dalla presenza di moscerini, affinando di pari passo anche la sensibilità olfattiva e gustativa per l’etanolo dato che la sua presenza indica necessariamente la presenza di zuccheri semplici altamente calorici e biodisponibili.
Queste preferenze sarebbero state incentivate da una sorta di rinforzo positivo dovuto essenzialmente agli effetti psicoattivi dell’etanolo ed alla ricompensa energetica che deriva dal suo alto valore calorico.

Va anche ribadito che la capacità dell’uomo di assumere moderate quantità di alcol senza andare incontro a temibili conseguenze, si realizza in aggiunta all’attività dell’ADH anche grazie l’intervento di altri sistemi enzimatici e non.
L’individuo adulto e sano dispone di una vera e propria armata anti-alcol, in cui ciascun sistema/battaglione agisce in maniera sequenziale e collaborativa in modo da vicariare a eventuali deficit di alcuni o in presenza di dosi particolarmente generose di alcol. L’esistenza di un sistema così complesso e così ben organizzato, conferma da un lato l’effettiva pericolosità dell’alcol, dall’altro, fornisce un ulteriore starordinaria dimostrazione di quanto la Natura si adoperi sempre per trovare soluzioni efficaci anche quando ci impegnamo a metterla in difficoltà.

Concludo, e come in ogni relazione che si rispetti, i miei 2 take home messages, che mi sento di condividere:
• Possiamo ritenere che l’alcol in quantità moderate, così come i pochi grammi presenti in un calice di vino, sia stato parte integrante e naturale della dieta ancestrale dei primi ominidi essenzialmente frugivori, ciò fornirebbe anche una spiegazione della costante presenza di bevande alcoliche nei diversi contesti culturali.
• Come specie siamo geneticamente predisposti a limitati consumi di alcol, come quello ottenuto da uve fermentate, ma non ad elevate quantità ottenute per distillazione per le quali è doveroso un consumo occasionale e soprattutto responsabile.

La Drunken Monkey Hypothesis infine, potrebbe in parte spiegare come il consumo di bevande alcoliche sia legato nell’uomo al circuito del piacere e della ricompensa  come retaggio del nostro lontano passato quando l’alcol era legato a fonti di cibo, e quindi alla sopravvivenza della specie.
Ai nostri giorni, rimane abbastanza difficile attribuire tale ruolo alle bevande alcoliche, pertanto, l’unica attenuante valida che mi sento di raccomandare per chi ha sviluppato una particolare abilità di gomito rimane quella di prendersela con l’eredità lasciata dalla …scimmia ubriaca.