Vino, non nominare il nome della natura invano

di Riccardo Cotarella

 

La difficile vendemmia che abbiamo affrontato in questa annata mi ha suggerito una riflessione che voglio condividere e approfondire in questo editoriale. Vale a dire: senza il sapere, senza il supporto della scienza e senza l’evoluzione tecnologica a disposizione dei produttori e degli enologi, dopo una stagione così, che vini avremmo prodotto? La risposta è semplice: in molti casi, viste le tante dissonanze tra i costituenti dell’uva che, tra l’altro rappresentano le colonne del futuro vino, con i tanti problemi che non sto qui ad elencare, ma che tutti i colleghi ben conoscono, nell’insieme non si sarebbero sicuramente ottenuti vini di qualità Più o meno come quelli che si producevano, nella stragrande maggioranza dei casi, quando la vitivinicoltura era lasciata alla pura improvvisazione contadina o al frutto di esperienze tramandate di generazione in generazione. Su questo punto penso che possiate essere tutti d’accordo, tranne, probabilmente, coloro che ancora sbandierano la naturalità dei vini, come se un Brunello, un Chianti, un Barolo o un comune vino da tavola si cogliessero direttamente dalla vite e non fossero il risultato della trasformazione delle uve in un processo tanto entusiasmante quanto complesso.

Immaginate per un attimo di imbottigliare la spremitura delle uve senza alcun intervento aggiuntivo dell’uomo. Cosa troveremmo nei nostri calici? Aceto e anche di pessima qualità. E Stevenson non avrebbe mai potuto dire che “il vino è poesia imbottigliata”. E pensate, c’è ancora chi avanza teorie e discorsi che vorrebbero trasformare quella poesia in una specie di racconto dell’horror e che sono stati causa di default di tanti piccoli e medi produttori che, superficialmente, si sono affidati a processi produttivi improvvisati. Dobbiamo impedire certe derive integraliste e dissennate. Dobbiamo difendere e applicare lo straordinario lavoro fatto da pionieri scienziati della viticoltura e dell’enologia, come Pascal Ribéreau Gayon, l’autore del “Trattato di enologia”. Tra i tanti lavori che ci ha lasciato spicca lo studio sulla poltiglia bordolese che ha contribuito a “curare“ la peronospora. Oppure Denis Dubourdieu, che ha condotto fondamentali ricerche sulla biochimica degli aromi delle uve, dei lieviti e dei polisaccaridi. Ma anche Émile Peynaud, che ha studiato e evidenziato il grande ruolo della malolattica sui vini rossi. Poi, Pier Giovanni Garoglio, il chimico che diede un contributo decisivo all’enologia scientifica. Louis Pasteur, che non ha bisogno di presentazioni, perché universalmente riconosciuto come il fondatore della moderna microbiologia applicata, per lo più sullo studio del comportamento dei saccaromiceti nella fermentazione dei mosti. E come non ricordare Giacomo Tachis, l’enologo per eccellenza che ha avviato la rinascita del vino italiano. E, arrivando all’oggi, il professor Attilio Scienza, massimo esperto di agronomia e viticoltura e “creatore” di coultivar resistenti ai patogeni. Il clima impazzito ci ha detto chiaramente che occorre intervenire in nome della scienza per salvare i nostri vigneti. Con il contributo della tecnologia, applicata sia nei vigneti che nella trasformazione delle uve. Il rinascimento italiano del vino è stato possibile grazie anche alle tante aziende che hanno messo a disposizione macchine, impianti e soluzioni tecnologiche di un livello altissimo. Ai tanti capitani d’azienda che, attraverso la ricerca e lo sviluppo, ci hanno dato e ci danno la possibilità di lavorare in condizioni praticamente perfette, deve andare non solo il nostro ringraziamento, ma tutta la nostra riconoscenza. Abbiamo aziende, molte proprio italiane, che attraverso i loro prodotti hanno saputo interpretare al meglio l’esigenza della vitivinicoltura moderna. Molte di queste imprese sono da sempre vicine ad Assoenologi e per noi è motivo di orgoglio. Il nuovo clima ci pone sfide sempre più alte e complesse. Noi enologi siamo pronti a misurarci e lo saranno anche gli imprenditori che ruotano attorno al settore. Ne vale la crescita qualitativa dei nostri vini. Ma dovremmo continuare a lavorare anche sull’approccio culturale, è ora di dire basta ai ciarlatani della vite e del vino che della natura ne invocano il nome invano.